Meet Design è un tentativo, riuscito, di raccontare l'Italia attraverso l'evoluzione degli oggetti che danno vita alle nostre giornate.
Una modalità espressiva che coglie le linee nascoste dell'architettura d'interni, scopre il sistema nervoso della creatività. E ne riproduce, in sintesi perfetta, qualità e tendenze.
[...]
Un racconto che segnala due variabili di fondo, sulle quali vale la pena di soffermarsi. Il design italiano, da Gio Ponti in poi, ha sposato l'industria in un connubio ideale che altre forme d'arte e d'ingegno non hanno saputo fare. In questo senso il primato italiano rimane intatto: una sorta di brevetto universale, mai depositato, eppure riconosciuto in tutto il mondo. Altri settori industriali e altre scuole creative dovrebbero meditare su questa singolare eccezione del Made in Italy, una serendipity tutta italica che una volta tanto smentisce l'adagio sulla incapacità di fare sistema, sulla tenace resistenza a lavorare insieme, sulla genetica predisposizione all'esibizione individuale, rifiutando contaminazioni e impollinazioni culturali. La seconda considerazione, bene esposta nello scritto introduttivo al catalogo della mostra del curatore Marco Romanelli, segnala nello stesso tempo una intelligenza tattica e una debolezza strategica. La metafora del fiume del design è suggestiva perché gli emissari del bacino dei grandi maestri, pur venendo da tutto il mondo, hanno in massima parte bagnato territori italiani. Il nostro design ha esportato oggetti e modelli di vita italiani in tutto il mondo, accogliendo, come le signorie cinquecentesche, talenti da tutto il mondo; quelli, tanto per intenderci, che non riusciamo ad attrarre in altri campi, in discipline nelle quali si consumano amaramente le nostre speranze di crescita economica e non solo. La debolezza strategica - e qui il riferimento all'Italia ricca e litigiosa del Cinquecento è quanto mai appropriato - è nella capacità di reggere la globalizzazione del mercato con ridotte dimensioni industriali e scarsa capitalizzazione. Ma questo è un discorso che esce dal seminato della nostra mostra, del nostro evento. Presi dall'ansia di definire tutto, per poi spesso rifugiarsi nelle eccezioni, anche questa iniziativa si pone il problema di come parlare del design. La scelta del verbo meer, incontrare, è quanto mai felice. Il design favorisce l'incontro degli individui nella bellezza intima di uno spazio ritagliato su misura, accompagna ciascuno di noi nel lavoro e nella famiglia. Ogni ambiente è un proscenio, e noi tutti diventiamo attori di una commedia, la vita, non sempre leggera. Il design le da un tocco di grazia. Quello italiano di grande qualità è una sorta di personal design che mette al centro di tutto la persona. Vivere nel bello non da la felicita, ma forse un po' di buonumore in fondo ce lo assicura.